In alto: la diga di Busachi durante una piena (foto Giorgio Pau).
Sotto, a sinistra: 1° maggio 2000, la diga e il ponte di Busachi scompaiono sotto
l'invaso della nuova diga Cantoniera (foto Giorgio Pau).
A destra: la diga di Busachi, oggi sommersa, e
l'invaso della diga Cantoniera in una sovrapposizione di
foto aeree.
«L'impianto del Tirso fu costruito per il primo, nonostante che - fra gli
impianti idroelettrici più importanti costruibili in Sardegna -
esso fosse quello che produceva minor quantità di energia, al
costo più caro. Ma, al basso valore idrodinamico di quel
serbatoio, corrispondeva un eccezionale valore irriguo, per la
entità dell'invaso (il massimo realizzabile in Sardegna) e per
la suscettività di trasformazione delle campagne a valle. Create
le possibilità irrigue, bisognava utilizzarle; non era facile,
mancando tradizioni e precedenti, esperienze e consuetudini. Il
Gruppo S.E.S. aprì la strada, costituendo appositamente, il 23
dicembre 1918, la Società Bonifiche Sarde (poi, nel 1933,
distaccatasi), la quale, acquistati 9.000 ettari di terreno, ne
curò la bonifica integrale e la trasformazione fondiaria,
realizzando ad Arborea - con le acque del serbatoio del Tirso -
quello che ancora oggi è il più importante esempio di grande
irrigazione, in tutta l'Italia Centrale, Meridionale, Insulare» [Società
Elettrica Sarda, Il gruppo elettrico sardo e gli impianti
dell'Alto Flumendosa, 1949].
La diga di Santa Chiara non poteva da sola soddisfare gli obiettivi dell'ampio e articolato progetto di bonifica, irrigazione, produzione di energia e industrializzazione concepito dalla Società concessionaria. Anche il suo "eccezionale valore irriguo", fino a quando altri impianti idroelettrici non fossero entrati in servizio, veniva penalizzato dalla necessità di dover produrre energia anche in inverno, scaricando a valle volumi d'acqua che sarebbero invece tornati utili d'estate. Altri impianti idroelettrici furono perciò messi in cantiere. Il primo fu quello di Busachi (2° salto del Tirso), realizzato sbarrando il fiume circa 4,5 km a valle di Santa Chiara.
Un primo progetto della diga di Busachi fu presentato dalla Società Imprese Idrauliche ed Elettriche del Tirso nell'aprile del 1922, e prevedeva la costruzione della diga a valle della confluenza nel Tirso del Flumineddu, dove oggi è ubicata la traversa di Nuraghe Pranu Antoni. A causa di problematiche di natura geologica (problematiche che puntualmente si sarebbero riproposte, molti anni dopo, nel corso della costruzione della traversa di Nuraghe Pranu Antoni), nel nuovo progetto del luglio 1923, a firma ancora dell'Ing. Omodeo, la diga fu spostata assai più a monte, poco a monte del vecchio ponte di Busachi. La diga progettata era a gravità massiccia, in muratura di pietrame legata con malta di cemento, e presentava un andamento planimetrico leggermente arcuato. Il volume di invaso proprio della diga risultava naturalmente irrisorio (meno di 2 milioni di metri cubi), ma la diga di Busachi condivideva anche l'invaso di Santa Chiara, di cui raccoglieva i deflussi, aggiungendo i suoi 17 m di salto ai 54 m di Santa Chiara, e portando la produzione annua di energia del sistema Tirso, 1° e 2° salto, a circa 70 milioni di kWh.
I lavori di costruzione della diga di Busachi, iniziati nel dicembre del 1923, terminarono nel 1925. Il 1° gennaio 1925, a lavori ancora non del tutto conclusi, la diga iniziava gli invasi sperimentali. Il 2 marzo 1927, con la conclusione del collaudo, la diga iniziava l'esercizio normale.
Diga | Santa Chiara | Busachi | Muzzone |
Costruzione | 1917-24 | 1923-25 | 1924-26 |
Altezza max sulla fondazione | 70,5 m | 29,0 m | 58,0 m |
Volume d'invaso | 416 Mm³ | 2 + 416 Mm³ | 254 Mm³ |
Dislivello massimo utilizzabile | 54 m | 17 m | 97 m |
Potenza installata | 23,2 MW | 3,6 MW | 27,2 MW |
Produzione annua prevista | 50.000.000 kWh | 20.000.000 kWh | 90.000.000 kWh |
La seconda, e ben più importante diga destinata principalmente alla produzione di energia idroelettrica fu quella sul Coghinas a Muzzone. Fu grazie all'impianto del Coghinas che Santa Chiara poté finalmente esplicare appieno la sua vocazione irrigua, come ben spiega l'Ing. Dolcetta in una memoria del 1927: «Il Coghinas poi, che non può aspirare ad irrigare d'estate larghe zone di terreni perché pochi ne esistono a valle dell'impianto accennato, varrà a garantire e ad estendere l'irrigazione del Tirso. Ed ecco come. Il Tirso ci ha dato in questi ultimi anni un po' meno acqua di quanto noi ne sperassimo; essa sarebbe stata però sempre largamente sufficiente a riempirlo quando fosse stato possibile diminuire il consumo d'acqua nell'inverno per riservare all'estate una maggiore quantità. Ma il Tirso era solo e questa economia d'acqua di inverno a favore dell'estate non era possibile, perché l'energia elettrica occorreva anche d'inverno; ed è per questo che, scarsamente alimentato dalle piogge ed abbondantemente smunto invece, nell'inverno, nella necessità di fare energia elettrica e nella speranza che piovesse di più in primavera, non poté mai raggiungere gli elevati livelli che aveva raggiunto nel 1923-24, e venne a trovarsi assai povero d'acqua alla fine dell'estate e cioè quando, a cose avviate, la irrigazione sarebbe stata più necessaria. Col soccorso del Coghinas che non ha invece nessuna ragione di riservarsi per l'estate e che può dunque lavorare l'inverno anche per lui, il Tirso potrà manovrare con maggiore libertà. Come energia elettrica non ci sarà niente di perduto e l'irrigazione ne risentirà invece tale vantaggio da poter garantire l'acqua ad una zona molto più estesa che altrimenti non sarebbe. Calcolando sufficienti per l'irrigazione, quale sì praticherà in Sardegna, 70 centimetri d'acqua estiva, non sarà inferiore ai 50.000 ettari l'estensione della zona irrigabile: tutto il Campidano di Oristano da Riola a Terralba!» [Dolcetta, La Sardegna industriale: Il bacino del Coghinas, 1927].
La diga sul Coghinas a Muzzone.
Nella memoria sopra citata l'Ing. Dolcetta osservava
inoltre che in Sardegna l'estrema variabilità dei deflussi
rendeva difficoltoso (e biasimevole) per il produttore di
energia impegnarsi per la vendita alle utenze di quantità di
energia superiori a quelle prevedibili per gli anni minimi.
D'altra parte, ridurre ogni possibile utilizzazione alle
quantità minime, adattandosi a gettare via inutilmente tutta la
maggiore energia producibile negli anni di più abbondante
disponibilità, avrebbe corrisposto ad aumentare notevolmente il
costo medio di produzione dell'energia vendibile. Da qui l'idea
di implementare un'industria "polmone" che, producendo una merce
di largo mercato, sempre facilmente collocabile anche senza
l'impegno di produrre con continuità, mettesse a frutto nel
miglior modo possibile il valore della massa di energia
"incerta" che altrimenti sarebbe stata perduta: «Queste
ovvie considerazioni ci indussero a disporre in vicinanza
dell'impianto del Coghinas un grande stabilimento per la
produzione elettrica dell'ammoniaca sintetica e quindi del
solfato ammonico, assicurandocene il libero controllo».
Grazie alla disponibilità di sola aria, acqua ed energia
elettrica, si sarebbe ricavato, come da una miniera, un prodotto
nuovo, un prezioso fertilizzante come l'ammoniaca, ottenuta
combinando l'idrogeno derivato dall'acqua e l'azoto derivato
dall'aria. «Per renderne più pratico il trasporto e
l'applicazione al terreno, l'ammoniaca, viene trattata poi con
un acido per trarne un sale solido (nitrato o solfato, per ora)
che si insacca e si vende. Ecco l'industria dei prodotti azotati
sintetici, che ben si presta allo scopo ed al funzionamento
discontinuo perché non richiede materie prime né lavorazioni
complicate, ma solo impianti (per vero assai costosi) ed energia
elettrica in grande quantità - e produce una merce di facile e
sicuro mercato. L'impianto che abbiamo predisposto al Coghinas è
capace di produrre oltre 100 mila quintali di solfato ammonico
all'anno consumando 50-60 milioni di chilowatt-ora. Quando la
Sardegna lo assorbirà tutto, la sua produzione granaria ne
sarà aumentata di almeno 200 o 250 mila quintali all'anno, che
saranno ancora dovuti esclusivamente alla sua aria ed alla sua
acqua». E' un altro esempio della visione globale,
onnicomprensiva di questo manager
così prezioso per la rinascita economica dell'Isola: «E
giacché non ultima delle forze concomitanti che conducono alla
vittoria, è quella degli uomini, mi sia qui concesso segnalare
alla gratitudine del Sardi l'ing. Giulio Dolcetta, Il Direttore
generale delle Imprese Idrauliche ed Elettriche del Tirso, della
Società Elettrica Sarda, delle Bonifiche Sarde, che assunto il
carico non lieve di una serie di compiti, già di per sé gravi,
seppe con gagliardia ammirevole superare le difficoltà nuove
portate dalla guerra e dal dopo-guerra. Senza di lui, o di uomo
che a lui fosse pari, non si sarebbe così innanzi nella strada
percorsa» [Omodeo, Nuovi orizzonti
dell'Idraulica italiana - La Sardegna, 1923].
Profilo schematico dell'impianto del Coghinas.
Una caratteristica tecnica saliente dell'impianto del Coghinas è
che fu il primo esempio italiano di realizzazione della centrale
elettrica in caverna. «In una grande caverna scavata nelle
viscere del granito a 50 metri di profondità sotto i piedi della
diga, e che misura 9 metri per 14 di altezza su 80 di lunghezza,
abbiamo installato quattro gruppi da 7500 cavalli cadauno, e
così complessivamente, 30 mila cavalli. L'acqua è addotta alle
macchine mediante un tubo di acciaio e di cemento armato, di 3
metri di diametro, lungo in tutto 140 metri, che traversa la
diga e si inabissa nell'apposito pozzo fino a raggiungere la
caverna accennata. Scaricata dalle turbine, l'acqua è consegnata
alla galleria a pelo libero, che la restituisce al fiume nel
punto prescelto». Questa soluzione, da un lato garantiva
un'economia rispetto all'opzione di realizzare galleria in
pressione, pozzo piezometrico e condotta forzata in pendio,
dall'altro consentiva di ricavare tutto il salto sotto i piedi
della diga, utilizzando subito l'acqua e liberandola da ogni
pressione in modo da poterla avviare allo scarico con una
ordinaria galleria a pelo libero di semplice costruzione.
Peraltro, la centrale sotterranea avrebbe ridotto notevolmente
le difficoltà di organizzazione del servizio e di direzione,
raggruppando in un'unica località sia la diga coi suoi organi di
regolazione, che la centrale elettrica. Infine, la centrale
sotterranea appariva più sicura a fronte di un possibile attacco
aereo.
Il progetto di massima redatto dall'Ing. Omodeo prevedeva che la diga del Coghinas fosse del tipo a gravità massiccia. Il progetto esecutivo dell'Ing. Kambo (24 marzo 1925, con appendice 2 maggio 1925), analogamente a quanto accaduto nel caso della diga del Tirso, previde invece una diga ad archi multipli. E sulla base del progetto dell’Ing. Kambo la costruzione della diga venne iniziata, a partire dal 12 marzo 1924.
In alto: la diga del Gleno, prima e dopo il crollo.
Sotto: il tampone a gravità sottostante alla diga, il cui
cedimento si ritiene la causa del collasso repentino dello
sbarramento, nella sua parte centrale.
Ma pochi mesi
prima, il 1° dicembre 1923, era avvenuto il dramma che avrebbe
stroncato
definitivamente lo sviluppo delle dighe ad archi multipli in
Italia: il crollo della diga sul torrente Povo a Pian del Gleno
(Bergamo), una diga ad archi multipli che si appoggiava, nella
parte centrale, sopra un tampone a gravità in muratura di
pietrame e malta. I morti furono oltre 500. Le cause del collasso della
diga del Gleno poco avevano a che fare con la sua natura ad
archi multipli, dovendosi ricercare piuttosto nel cedimento del
tampone a gravità sottostante, ridotto di dimensioni rispetto
alle previsioni di progetto, malamente costruito con l'uso di
calce invece che cemento e indebolito da una galleria di scarico
centrale dell'altezza di dieci metri. Tuttavia l’episodio generò
in Italia un clima di sfiducia verso quelle volte sottili che,
soprattutto se realizzate senza una perfetta osservanza delle
buone norme costruttive, potevano dar luogo a immani disastri. Con
decreto del 6 dicembre 1923, il Ministro dei Lavori Pubblici
insediò una commissione composta da quattro tecnici di chiara
fama con il compito di esaminare lo stato di sicurezza delle
dighe esistenti e in costruzione e la loro rispondenza alle
norme vigenti “e in ogni caso suggerire le urgenti
occorrenti provvidenze per assicurare la stabilità delle opere e
la pubblica incolumità”.
Planimetria della diga del Coghinas e sezione verticale
sullo scarico di fondo. Si osserva dalla planimetria come lo
scarico di fondo (attualmente dismesso) si intesti su una delle
tre voltine centrali dello sbarramento a volte multiple
progettato dall'Ing. Kambo, del quale era già iniziata la
costruzione all'atto della modifica di tipologia richiesta dalla
Commissione per la verifica delle dighe di ritenuta.
A seguito del vaglio operato dalla
Commissione, che terminò i
suoi lavori nei primi mesi del 1926, alcune dighe ad archi
multipli già in costruzione furono ultimate come tali (Molato,
Piacenza, 55,5 m; Pavana, Bologna, 54 m; Piano Sapejo, Genova,
17,5 m; Lago Venina, Sondrio, 61 m; Fontanaluccia, Modena, 60
m), mentre altre furono modificate diventando dighe a gravità.
Si tratta delle dighe della Val Toggia, Novara, attualmente 47
m, del Lago d’Avio, Brescia, 40 m e del Coghinas a Muzzone, in
Sardegna. Nel caso di queste ultime due dighe, la modifica
intervenne quando già i lavori di elevazione degli archi era
stata avviata, dando luogo a degli ibridi molto originali. La
diga del Coghinas, in particolare, mantenne l’imbocco dello
scarico di fondo, già realizzato al momento della modifica, alla
base di una delle volte centrali della diga ad archi multipli
originariamente prevista.
«Per la diga, incoraggiati dalla riuscita di quella del Tirso, ormai universalmente riconosciuta e lodata, avevamo proposto un tipo che la riproduceva fedelmente, salvo le dimensioni che erano più modeste. La sua adozione ci avrebbe risparmiato un anno di tempo ed ingenti somme di denaro. Disgraziatamente, l'impressione del terribile disastro del Gleno, allora attribuito da alcuni al tipo dell'opera, mentre appare ora chiaro che esso non c'entrava per nulla, indusse il Governo ad opporsi tenacemente ed a pretendere una soluzione tecnica diversa. Abbiamo dunque costruita una diga a gravità rettilinea del volume di 105 mila metri cubi di muratura e calcestruzzo» [Dolcetta, La Sardegna industriale: Il bacino del Coghinas, 1927].
I lavori di costruzione della diga del Coghinas furono ultimati il 20 dicembre 1926. Terminato il collaudo, il 26 febbraio 1927 la diga iniziava l'esercizio normale.
Con la realizzazione delle dighe di Busachi e del Coghinas la produzione di energia idroelettrica prevedibile ascese a 160 GWh annui, un quantitativo capace di soddisfare largamente le richieste dell'Isola per molti anni a venire. «La produzione media prevista pel Tirso e pel Coghinas, è di 160 milioni annui complessivi di kW-h. La minima assoluta prevedibile, di 100 milioni di chilowatt-ora. Il consumo degli utenti e delle industrie sarde nella loro fase attuale (e cioè, intendiamo, collo sviluppo prevedibile per alcuni anni), sta notevolmente al disotto di 100 milioni. Possiamo dunque ritenere di essere e di restare per alcuni anni nella più tranquilla sicurezza di sopperire ai bisogni di tutti, mentre siamo pronti a consumare utilmente tutta la produzione prevedibile negli anni buoni. Ed a nuove iniziative, impianti nuovi!» [Dolcetta, Op. cit.].
Come Busachi e Muzzone erano destinate a integrare le potenzialità di Santa Chiara riguardo alla produzione di energia elettrica, così altri due sbarramenti, la traversa di Santa Vittoria e la diga di laminazione sul Rio Mogoro, integrarono Santa Chiara nell'ambito delle opere destinate all'utilizzazione a fini irrigui delle acque del Tirso.
La traversa di presa di Santa Vittoria, a valle di Santa Chiara,
terminata nel 1930, come appariva subito dopo la costruzione e (in basso), come appare oggi, dopo la
realizzazione del ponte di attraversamento superiore e la posa di
paratoie a comando oleodinamico sulle luci (tutte sollevate e appese
all'impalcato del ponte, nella foto), aventi
la funzione di innalzare il rigurgito a monte da 16,05 a 17,30 m
s.l.m.
La traversa di Santa Vittoria, che sbarra il Tirso circa 20 km a
valle di Santa Chiara, poco
a monte dell'abitato di Ollastra, consente la
derivazione e canalizzazione delle acque del fiume, e rappresenta
tutt'oggi il punto nodale del sistema irriguo alimentato dal
lago Omodeo. Da essa, infatti, si dipartono i due canali
adduttori, denominati “Destra Tirso” e "Tirso-Arborea" (o
“Sinistra Tirso”), dai quali origina tutta la rete
di irrigazione dell'Oristanese e della piana di Terralba e
Arborea. Al canale in sinistra fa oggi capo anche la condotta che consentirebbe di trasferire fino a
Cagliari l'acqua del Tirso, per una alimentazione di soccorso a
fini potabili.
Già nel progetto Omodeo del 1912 la traversa di Santa Vittoria era prevista in prossimità di Ollastra, a valle della confluenza del Rio Monte. Il progetto di massima originario prevedeva che essa dovesse innalzare il livello delle acque del Tirso fino a quota 21,60 m s.l.m.. Il rigurgito dell'opera così concepita si sarebbe esteso a monte per 10 chilometri fino al ponte sul Tirso di Fordongianus, andando a lambire le antiche Terme romane. Questo fatto inevitabilmente determinò delle forti opposizioni. Peraltro, il formarsi di un così ampio rigurgito avrebbe imposto una variazione del tracciato della strada che da Ollastra conduce a Fordongianus, con le conseguenti complicazioni costruttive, tra queste la realizzazione di un nuovo ponte sul Rio Monte. Fu così che, dopo successivi ripensamenti riguardanti anche la posizione in cui realizzare lo sbarramento, l'opera assunse l'attuale collocazione e conformazione, con soglia di sfioro a 16,05 m s.l.m.. Dal 1959, nei periodi di punta della stagione irrigua (giugno-agosto), la quota di rigurgito dell'invaso viene elevata a 17,30 m s.l.m., originariamente collocando sulla soglia 30 panconi metallici amovibili, di altezza pari a 1,25 m, oggi mediante paratoie piane di pari altezza. Con ciò si ottiene di aumentare da 15 a 21 m³/s la portata massima derivabile nel canale Tirso-Arborea.
La costruzione della traversa di Santa Vittoria, lunga 180 m, richiese 15.000 m³ di scavi in roccia e 40.000 m³ di scavi in terra, oltre alla messa in opera di 22.000 m³ di calcestruzzo in parte armato. I lavori furono eseguiti dalla Siemens Bau Union di Berlino, e si svolsero tra il 1° luglio 1929 e il 18 dicembre 1930.
Il 6 novembre 1931, con la conclusione del collaudo, ebbe inizio per la traversa l'esercizio normale.
La diga sul Rio Mogoro fu realizzata nell'ambito della bonifica della piana di Terralba-Arborea. Il problema principale da risolvere nell'affrontare l'opera di bonifica di un comprensorio di complessivi 18.000 ettari fu quello di disciplinare l'afflusso delle acque torrentizie provenienti dalle falde del Monte Arci e dai contrafforti alluvionali sottostanti, che alimentavano un'area umida dove si contavano ben 167 stagni di diverse dimensioni, il maggiore dei quali era lo stagno di Sassu, che si estendeva su una superficie di 3.000 ettari e conteneva un volume d'acqua di 11 milioni di metri cubi.
Il più importante dei torrenti che affluivano allo stagno di Sassu era il Rio Mogoro, capace di piene talora forti e repentine nel periodo invernale, con portate massime superiori ai 700 m³/s. La regimazione del Rio Mogoro fu raggiunta con la realizzazione di un serbatoio moderatore capace di 12 milioni di metri cubi mediante la costruzione di una diga in muratura del tipo a gravità, lunga in cresta circa 350 m e alta nel punto massimo 30 m. Lo sbarramento fu studiato in modo da far defluire a valle, attraverso una condotta metallica in acciaio di 3 m di diametro, una portata modulata non superiore a 160 m³/s.
Schema planimetrico delle principali opere
finalizzate al prosciugamento e alla bonifica della piana di
Terralba-Arborea.
Cartina dell'IGM del 1918, dove si osserva la
miriade di stagni e paludi che occupavano la piana di Terralba
prima della bonifica.
I lavori di costruzione della diga del Mogoro presero il via nel
marzo del 1931, per concludersi sul finire del 1933. Per
realizzare l'opera occorsero 250.000 giornate lavorative. Il
volume di pietrame e malta di cemento posto in opera per
realizzare lo sbarramento fu di circa 60.000 metri cubi. Il
costo complessivo della diga si aggirò sui 15 milioni di lire
dell'epoca (circa 16 milioni di euro attuali).
A valle della diga, il Rio Mogoro fu sistemato mediante arginature per uno sviluppo complessivo di 5,6 km, e poi deviato mediante un canale diversivo di 11 km (Diversivo Mogoro) che ne convoglia le acque non più allo stagno di Sassu, ma allo Stagno di S. Giovanni, in diretta comunicazione col mare.
Ulteriori importanti opere furono realizzate per la bonifica idraulica del comprensorio. Si farà qui un breve cenno alle principali, per dare un'idea della complessità del progetto nel quale si inserisce la diga del Mogoro.
La maggior parte degli altri torrenti provenienti dal Monte Arci furono allacciati e deviati mediante il Canale delle acque alte, lungo 17 km, orientato da nord a sud sull’orlo delle alture ad est del comprensorio. Alla confluenza col Rio Mogoro, il Canale delle acque alte riversa le acque raccolte nel Diversivo Mogoro, capace di convogliare una portata di 250 m³/s grazie alle sue considerevoli dimensioni (larghezza al fondo pari a 20,5 m, ivi compresa una savanella di 2 m di apertura per 1,50 di altezza).
A nord, due torrenti non allacciati dal Canale delle acque alte furono incanalati mediante il c.d. Diversivo S. Anna (dal nome del maggiore di questi torrenti), che ne convoglia le acque allo Stagno S'Ena Arrubia, anche questo direttamente comunicante col mare. Per la realizzazione del canale diversivo fu adottata la soluzione di contenere le acque fra un argine circondariale e la gronda nord dell’ex Stagno di Sassu. La golena risultante, assai ampia, permette anche il temporaneo immagazzinamento di un rilevante volume d’acqua, con conseguente effetto moderatore delle piene. Lo sviluppo totale del diversivo è di 7 km. Data la modesta velocità delle acque, il rivestimento dell’argine fu eseguito con fascine. Allo sbocco del Diversivo S. Anna fu costruito un ponte le cui 4 luci sono munite di paratoie, destinate ad evitare il reingresso delle acque salate nel Diversivo, il cui fondale, per ragioni di pendenza, si spinge al di sotto del livello del mare. Nella stagione delle piogge, quando l’acqua del diversivo sale oltre il livello del mare, le paratoie vengono aperte finché il dislivello cessi. L'acqua rimanente, sottostante al livello del mare, viene assorbita e scaricata in mare dall'Idrovora di Sassu.
L'Idrovora di Sassu, opera dell'insigne architetto Flavio Scano (figlio del non meno illustre ingegnere e studioso Dionigi Scano, cui invece si deve il progetto della diga del Mogoro), è la maggiore idrovora di prosciugamento realizzata nell'ambito della bonifica di Terralba-Arborea. Compito principale dell'idrovora è scaricare in mare le acque drenate dal Collettore delle acque basse, che su uno sviluppo di circa 17 km raccoglie le acque della maggiore delle numerose depressioni, quella dell'ex Stagno di Sassu, e di diverse altre paludi minori situate più a sud. L'Idrovora del Sassu fu dotata di 4 gruppi di elettropompe da 700 CV, capaci di assorbire 12 metri cubi d'acqua al secondo. Un'altra idrovora di prosciugamento, l'Idrovora di Luri, destinata a prosciugare l'area dello Stagno di Luri e di altre paludi vicine, fu invece dotata di 4 elettropompe da 40 CV. Anche di questa fu progettista l'Arch. Flavio Scano.
Paludi, stagni e acquitrini di entità minore furono bonificati per colmata, riversandovi il terreno delle dune circostanti (attività che comportò lo spostamento di oltre 700.000 metri cubi di terra), e realizzando una rete di canali di scolo che consentissero il drenaggio, l'allontanamento e lo scarico in mare delle acque.
Prosciugate le paludi, i nuovi terreni dovevano essere resi coltivabili. L’acqua per l’irrigazione venne dal bacino idrico del Tirso, e fu convogliata al comprensorio mediante il canale Tirso-Arborea, che ha origine dalla Traversa di Santa Vittoria. Raggiunto il centro del comprensorio, le acque del canale irriguo sono sollevate di 6 metri per mezzo di un’idrovora, affinché anche i terreni più alti possano essere irrigati. Il canale prosegue quindi verso il mare, il che aggiunge alla sua funzione irrigua nei mesi estivi, anche una funzione di scolo nei mesi invernali, come Canale delle acque medie. I lavori per l’apertura del canale irriguo, la cui lunghezza raggiunge i 57 chilometri, richiesero un rilevante impiego di mano d’opera e di mezzi. La quantità del terreno rimosso fu di 1.200.000 metri cubi. Il rivestimento del canale fu interamente eseguito in calcestruzzo. Onde evitare che le acque dei torrenti che incrociano il canale irriguo possano disturbarne il regolare esercizio, furono costruiti vari sifoni, spingendo il corso del canale al di sotto dell'alveo dei torrenti intercettati.
Nella seconda metà degli anni '20 cominciarono progressivamente a venir meno le condizioni che avevano consentito l'avvio ed il rapido decollo del progetto di Omodeo e Dolcetta, volto a promuovere la rinascita della Sardegna traendo beneficio dalla sua particolare attitudine alla creazione di grandi laghi artificiali, attitudine che avrebbe consentito, grazie alla migliore regolazione delle acque e a più larghe dotazioni di energia elettrica, l'ammodernamento dell'agricoltura, il decollo delle attività industriali e, più in generale, una migliore organizzazione tecnica della popolazione e delle attività produttive.
Una di queste condizioni, era stata la "leggina" ispirata da Omodeo (L. 2 settembre 1913, n. 985), che accordava al concessionario del serbatoio sul Tirso di espropriare per pubblica utilità i terreni i cui proprietari si fossero rifiutati di acquistare l'acqua per l'irrigazione. Se questo da un lato aveva favorito l'attività e gli investimenti del "gruppo elettrico sardo", che attraverso l'acquisizione e la bonifica di un vasto comprensorio irriguo aveva potuto mettere a frutto le nuove disponibilità idriche assicurate dal serbatoio del Tirso e fruire di notevoli contributi statali per l'esecuzione delle opere di bonifica, dall'altro aveva creato un vasto malcontento tra i possidenti fondiari, tanto restii ad accollarsi le spese per la bonifica agraria dei propri terreni, quanto risoluti nel mantenersi un reddito garantito derivante dai canoni di affitto dei terreni a pascolo o comunque dalla coltivazione di specie non irrigue.
I politici fascisti (da sinistra) Antonio Putzolu (1894-1969), Giovanni Cao
(1893-1981) e Lare Marghinotti (1878-1957).
La resistenza dei proprietari terrieri non sarebbe stata tuttavia
sufficiente a rompere il monopolio del gruppo elettrofinanziario se non
fosse stata sostenuta da alcuni
esponenti di rilievo del fascismo locale, come Antonio Putzolu, Giovanni Cao
e Lare Marghinotti, contrari alla penetrazione in Sardegna del
capitale finanziario con autonomi progetti integrati di pianificazione,
bonifica e sviluppo del territorio tali, come afferma il Prof.
Barone nel suo libro Mezzogiorno e modernizzazione del
1986, da "sottrarre ai gruppi dirigenti sardi l'uso politico di
quelle provvidenze pubbliche per le
aree arretrate su cui si reggeva il consenso
di massa al regime fascista".
Il connubio fra fascismo e possidenza fondiaria, tutt'altro che limitato alla Sardegna, ebbe come effetto primario la costituzione di un gran numero di consorzi tra proprietari terrieri i quali, favoriti da nuove disposizioni normative (R. decreto-legge 29 novembre 1925 n. 2464) che accordavano al consorzio dei proprietari la preferenza nelle concessioni dei lavori di bonifica rispetto ai privati e alle società, riuscirono infine a disarticolare la concatenazione tra sistemazione idraulica e trasformazione fondiaria, tanto nel Campidano di Oristano, quanto nella piana di Terralba. Le numerose domande dei consorzi dei proprietari di gestire in proprio gli interventi nelle terre incluse nel piano generale di bonifica della SBS determinarono, a danno della Società guidata da Dolcetta, un forte allungamento dei tempi delle istruttorie ed enormi ritardi nelle concessioni, con il conseguente rallentamento di quei finanziamenti statali che avrebbero consentito di completare e rendere compiutamente produttive le aziende agricole della SBS.
Ma i proprietari consorziati, benché favoriti dalla legge nell'acquisizione delle concessioni dei piani di trasformazione fondiaria, non per questo divennero più disposti di prima ad investire le proprie sostanze nella realizzazione degli interventi per i quali avanzavano la loro candidatura; né avevano comunque le risorse tecniche e progettuali per poter realizzare i lavori di bonifica, né la credibilità e la solvibilità per l’accesso diretto al credito necessario. Finanziato dal Credito Italiano e appoggiato dagli esponenti del fascismo locale, venne allora creato un Istituto Sardo per la Bonifica Integrale (ISBI), il quale in poco tempo, tramite convenzioni con i consorzi, riuscì ad ottenere in appalto una quantità rilevante di interventi di bonifica, fruendo delle relative sovvenzioni statali. Nel momento in cui i consorzi riuscivano ad avere in concessione i lavori di bonifica, l’ISBI ne garantiva l’attuazione, ottenendo in cambio l’appalto di tutte le opere di bonifica con i relativi contributi pubblici e privati. Una volta ottenuti i lavori, l’ISBI li subappaltava ad imprese legate al Credito Italiano: Ferrobeton, Almagià, Tosi, Riva.
Alberto Beneduce (1877-1944).
In tal modo, l’ISBI e il Credito Italiano riuscirono in pochi anni a soppiantare in
Sardegna la Banca Commerciale, che aveva finanziato la Società
Bonifiche Sarde. Di conseguenza, le bonifiche rimasero ancora nelle
mani del capitalismo finanziario "continentale", ma con una
partecipazione maggiore agli utili (benché non ai progetti, ai
lavori e alle spese) dei proprietari terrieri sardi, e con un maggiore controllo
sui finanziamenti statali da parte degli esponenti del
fascismo isolano.
Con questo stato di cose, nonostante l'interessamento personale di Mussolini, che cercò di evitare il fallimento delle Bonifiche Sarde autorizzando un contributo a fondo perduto, l'esposizione debitoria della SBS, costretta ad anticipare i capitali occorrenti per la realizzazione delle opere di bonifica, gravandosi degli interessi passivi conseguenti, crebbe a tal punto che la stessa Società Elettrica Sarda, presieduta da Alberto Beneduce, detentrice del pacchetto azionario di maggioranza della SBS, maturò la decisione di non sostenere più i progetti di Dolcetta e i tentativi di quest’ultimo di ottenere nuove aperture di credito e un alleggerimento della situazione debitoria attraverso la trasformazione dei crediti nei confronti della SBS in partecipazione azionaria.
«Il Tirso, il Coghinas, il Flumini Mannu, il
Temo, il Flumendosa, il Cedrino, altri ed altri fiumi minori
comportano nel loro bacino (...)
Il contrasto tra Giulio Dolcetta e Alberto Beneduce, il primo
generosamente rivolto a difendere e portare a compimento l'opera
dispiegata in tanti anni alla guida della SBS, il
secondo più prosaicamente preoccupato di difendere gli interessi
degli azionisti e della Comit, portò infine alle dimissioni di
Dolcetta da presidente della SBS, e alla sua definitiva partenza
dalla Sardegna nel luglio del 1933.
Con la partenza di Dolcetta dalla Sardegna e di Omodeo dall'Italia (quest'ultimo già dal 1931 svolse all'estero, soprattutto in Unione Sovietica, la sua attività professionale), il progetto di fare della Sardegna "l'Isola dei laghi", con la realizzazione di numerosi grandi serbatoi ad uso plurimo, subì una lunga battuta d'arresto. Vennero in realtà ultimati, negli anni successivi, gli invasi di Corongiu III, di Nasca sull'isola di San Pietro, di Bunnari Il e dell'isola de La Maddalena, dei quali si è detto in altre pagine, ma si tratta di invasi minori destinati a servire acquedotti cittadini, non di grandi invasi inseriti in progetti integrati di ampio respiro, come quelli concepiti dall'Omodeo e perseguiti da Giulio Dolcetta. Tuttavia, i risultati e le premesse per ulteriori importanti realizzazioni sopravvissero agli artefici di quella che resta la più importante e decisiva stagione di rinascita e sviluppo avutasi in Sardegna. Restarono le opere realizzate, in particolare le bonifiche e i grandi invasi sul Tirso e sul Coghinas. Sull'Alto Flumendosa già nel 1928 erano stati avviati i lavori per la costruzione della diga di Bau Muggeris, che furono poi più volte interrotti e infine completati nel secondo dopoguerra. Per la utilizzazione del Medio Flumendosa a scopo sia idroelettrico che irriguo, a servizio del Campidano di Cagliari, il gruppo elettrico sardo aveva fatto redigere due progetti all'Ing, Omodeo, nel 1922 e nel 1924, e un terzo progetto all'Ing. Princivalle nel 1926. Questi progetti nel dopoguerra furono messi a disposizione del Ministero dei Lavori Pubblici, e costituirono la base per la redazione dei progetti definitivi delle opere. Altri invasi ipotizzati e studiati da Omodeo furono realizzati in epoca successiva. Dunque se la stagione di Omodeo e Dolcetta si concluse amaramente, anche per l'intervento determinante di quello stesso regime così pronto ad attribuirsi ogni merito per le opere realizzate e i successi conseguiti, la loro eredità rimane, ed è grande, e l'Isola dei laghi è oggi, in massima parte, una realtà. Spetterebbe ai sardi, possidenti, imprenditori, tecnici e amministratori, di gestirla e metterla a frutto nel miglior modo possibile, derivandone lavoro e ricchezza per tanta gente.