Fig. 56: Raffigurazione, in una stampa del 1864, di ciò che
rimaneva di uno speco dell'Anio Novus, poco a valle del sito ove
sorgeva la maggiore delle dighe neroniane di Subiaco (per cortesia
della
British Library, su flickr.com)
In Italia non si
conservano dighe a gravità antecedenti alla
seconda metà del XIX secolo paragonabili alle
imponenti dighe spagnole, ma di almeno una si
conserva il ricordo. Si tratta della maggiore
delle tre (più probabilmente due) dighe romane
di Subiaco, che nella stretta vallata fra i
Monti Simbruini sbarravano il corso dell'Aniene
formando altrettanti laghi artificiali, detti
Simbruina stagna (laghi Simbruini), sulle cui
opposte sponde sorgevano i diversi padiglioni
della villa di caccia dell'imperatore Nerone. Il
lago principale, formato dalla diga chiamata
Pons Minimus in quanto sbarrava il fiume e
ne congiungeva le sponde in una forra
particolarmente stretta, situata nei pressi
dell'odierno ponte San Mauro, fu utilizzato
dall'imperatore Traiano come bacino di
captazione dell'acquedotto Anio Novus.
Le diverse ipotesi sul numero delle dighe di Subiaco (due oppure tre) attengono principalmente al fatto che un ponte situato circa 100 metri a monte del Pons Minimus, detto Pons Marmoreus, fosse un ponte-diga ovvero solo un ponte, senza opera di sbarramento, come sembrerebbe più ragionevole ipotizzare sulla base dei resti e delle tracce rinvenuti, ma anche della logica: perché gli ingegneri romani avrebbero dovuto sbarrare il fiume alla sezione del Pons Marmoreus con una diga dello sviluppo di 70 metri, quando 100 metri a valle disponevano di una stretta, quella del Pons Minimus, che si poteva sbarrare con una diga di soli 30 metri di sviluppo al coronamento (e molto meno alle quote inferiori)? E in ogni caso, perché costruire due dighe dove ne bastava una?
Dopo il Pons Minimus, scendendo verso valle, era realizzata un'altra diga, comunemente conosciuta come diga della Cartiera, in quanto prossima ad una cartiera costruita in sponda destra dell'Aniene nel 1587.
La più rilevante (e anzi imponente, per i tempi) delle dighe neroniane era la diga Pons Minimus, che dalle tracce lasciate dall'acqua invasata sulle sponde del bacino, e dal cemento sulle pareti della sezione di sbarramento, si ritiene dovesse avere un'altezza non inferiore a 50-60 metri, e fosse realizzata in calcestruzzo con rivestimento dei paramenti in pietrame squadrato. Circa la tipologia della diga, gli studiosi oscillano tra l'ipotesi di una struttura a gravità a quella di una diga ad arco-gravità. Ma indipendentemente dal fatto la diga fosse a pianta arcuata o rettilinea, la sua natura massiccia era imposta, in buona misura, dalla stessa eccezionale altezza della struttura, che certo richiedeva un forte spessore della sezione resistente alla base, per far fronte non solo alla crescita della spinta dell'acqua con la profondità, ma anche al peso gradualmente crescente della parte sovrastante della muratura.
Fig. 57: La Tavola dei Laghi, o della Tentazione, 1428,
conservata presso il monastero del Sacro Speco, a Subiaco (RM) (per
cortesia di
Cultura Italia, Ministero per i beni e le attività culturali).
Il fatto che la
diga fungesse anche da ponte, porta a ritenere
che in sommità fossero realizzate delle luci di
sfioro, sopra le quali correva il percorso. È
diffusa convinzione che una raffigurazione
attendibile di come doveva apparire la diga Pons
Minimus si trovi in un quadro del 1428, detto
"Tavola dei Laghi" o "della Tentazione",
conservato presso il monastero del Sacro Speco
di Subiaco. Nel quadro è rappresentato un
episodio della vita di San Benedetto, col santo
che pesca nel lago seduto sul coronamento di una
diga. Sulla diga sono raffigurati due sfioratori
dai quali fuoriesce dell'acqua. In realtà, la
diga Pons Minimus, se certamente sopravviveva
all'epoca in cui visse e operò San Benedetto
(prima metà del VI secolo), era già crollata da
120 anni quando la Tavola dei laghi fu dipinta.
Le cronache riferiscono che la diga fu distrutta
nel 1305 (o forse nel 1302) da una piena
rovinosa che trovò la struttura già danneggiata
dai terremoti sopportati nel corso dei secoli,
oltre che dal tempo e dall'incuria, e
verosimilmente gravata dal carico aggiuntivo dei
sedimenti depositatisi a monte. Cionondimeno, è
possibile che nei 120 anni successivi al
disastro i monaci avessero conservato memoria
dell'aspetto della diga, o qualche sua
raffigurazione.
La diga della Cartiera sopravvisse all'evento che portò al collasso della diga maggiore, e si ipotizza che la diga tutt'oggi esistente in prossimità della cartiera, realizzata sul finire del XVI secolo per portare l'acqua allo stabilimento, derivi (forse in parte) dal restauro della vecchia diga neroniana (DI MATTEO 2005).
Fig. 58: Sopra, la diga del Ponte Grande sul torrente Rio
Grande di Amelia (TR).
Sotto, la diga in una foto degli anni '30. A
valle, i ruderi dei mulini, oggi nascosti dalla vegetazione.
Un'antica diga a gravità italiana che, contrariamente alle dighe di
Subiaco, tutt'oggi sopravvive, è quella che
sbarra il torrente Rio Grande di Amelia a valle
della diga de
La Para (fig. 26), citata nella pagina dedicata alle dighe ad
arco. Si tratta della diga del
Ponte Grande, alta circa 18 metri senza
mettere in conto l'altezza del ponte che la
sovrasta. I laghi formati dalle dighe della Para
e del Ponte Grande avevano la duplice funzione
di riserva idrica e di forza motrice per cinque
mulini, i cui ruderi si osservano al piede delle
due dighe e ancora più a valle.
Mentre, come sopra riportato, la diga della Para si ritiene risalga al XII secolo, nella diga del Ponte Grande la struttura muraria originaria, che ancora si distingue nella parte inferiore della diga, ove si apre lo scarico di fondo, è comunemente attribuita all'epoca dell'imperatore Aureliano (270-275 d.C.). La parte superiore, invece, pare abbia avuto una ristrutturazione intorno al 1650, e poi una successiva sistemazione nel 1880, quando fu realizzato, sopra la diga, il ponte stradale oggi esistente, che ne sostituì uno più antico. Durante la seconda guerra mondiale il ponte fu bombardato e interrotto in prossimità della sponda sinistra del fiume. Le parti danneggiate furono poi ricostruite nel dopoguerra.
Entrambe le dighe sul Rio Grande sono dotate di scarichi di fondo-sghiaiatori, che erano chiusi da porte formate da pali di legno. Con cadenza pressoché decennale, le porte venivano rotte e rimosse per consentire lo sfangamento dei bacini, con modalità non dissimili da quelle, descritte nella pagina precedente, seguite per la diga di Alicante. Si ha notizia che l'ultima apertura dello scarico della diga del Ponte Grande sia avvenuta nella seconda metà degli anni '60. Per la diga della Para l'ultimo sfangamento è ancora precedente, e risale al 1957-58. Alla fine degli anni '70 gli scarichi sono stati poi definitivamente murati, e nessuna operazione di allontanamento dei fanghi ha più avuto luogo. Di conseguenza, ad oggi entrambi i bacini sono completamente interriti.
Ormai da diversi anni lo stato delle dighe e dei bacini del Rio Grande, il cui eccezionale interesse storico e paesaggistico è unanimemente riconosciuto, è all'attenzione delle Associazioni culturali e ambientaliste e delle Autorità politiche. Si confida in un intervento, adeguato all'importanza degli obiettivi, che porti al ripristino dei laghi e alla migliore conservazione e gestione delle due antiche e venerande opere di ritenuta.
Fig. 59a: Planimetria su cartografia IGM 1:25000 e vista aerea (da
Geoportale Nazionale) dell'area ove sorgeva la diga federiciana
sul torrente San Cusumano. La carta IGM ancora riporta (...)
Ancora una
citazione, nell'ambito delle antiche dighe
murarie a gravità realizzate in Italia, meritano
due importanti opere siciliane: la diga di
San Cusumano ad Augusta (SR) e la diga di
Grotticelli a Gela (CL).
La costruzione di una diga nel feudo di San Cusumano, sul torrente omonimo, fu promossa dall'imperatore Federico II di Svevia (1194 - 1250) nell'ambito di un ampio sistema di opere di regimazione delle acque del territorio megarese, col quale si intendeva irrigare i campi e i frutteti, ma anche alimentare un vivaio per l'allevamento dei pesci. Il bacino costituente il vivaio fu realizzato sbarrando il torrente San Cusumano circa duecento metri a monte dello sbocco nella baia megarese, tra Capo Xiphonio e l'isola di Tapso.
La memoria della diga di San Cusumano si deve in buona misura allo studioso siracusano Prof. Giuseppe Agnello, che in un testo del 1935 ne raccontò la storia e, compatibilmente con lo stato di avanzato interrimento delle opere, descrisse la consistenza dello sbarramento e delle opere di scarico e ne ricostruì l'impronta, riportandola su una mappa catastale. Sulla base della sua descrizione, la diga aveva uno sviluppo planimetrico di circa 200 metri. L'altezza fuori terra, nel 1935, non superava i 6 metri a valle e i 5 metri a monte, ma il Prof. Agnello riteneva non arbitrario "raddoppiare forse i sei metri oggi visibili della diga, per calcolare la probabile altezza originaria". Ciò in quanto verso il centro dello sbarramento, dove nel muraglione si apriva una grande breccia attraverso la quale scorrevano le acque del San Cusumano dirigendosi verso il mare, si osservava l'arco superiore di una porta che evidentemente fungeva da scarico di fondo. Sommando la profondità della breccia, l'altezza della porta (che poteva supporsi intorno ai due metri) e considerando come anche al di sotto della porta avrebbe dovuto esservi un ulteriore spessore di muratura, il Prof. Agnello ipotizzava che l'altezza complessiva della diga fosse infine dell'ordine dei 12 metri. Un'opera, dunque, di notevole impegno, per l'epoca in cui fu costruita.
Fig. 59b: I resti della diga di San Cusumano (e di un muro
divisorio tra proprietà confinanti costruitovi
sopra in epoca recente). Nella foto ancora si
osserva il rivestimento esterno in blocchi
squadrati e la muratura interna di malta e
frammenti di pietra.
L'immagine, tratta dal libro
"Siracusa Sveva" del 2002, è qui pubblicata per
cortesia degli Autori, Dott.ssa Laura Cassataro
e, per la parte fotografica, Mo. Lamberto
Rubino.
Lo spessore del muraglione era di 6,5 metri
in corrispondenza della breccia centrale, e
andava gradualmente riducendosi fino a
raggiungere alla sommità la larghezza di 3
metri. La diga era formata di muratura di
pietrame e malta idraulica. I paramenti e il
coronamento erano rivestiti di piccoli conci
squadrati di pietra calcarea (opus quadratum),
mentre l'interno era costituito da emplecton (si tratta,
come vedremo più diffusamente in una pagina successiva, di una sorta di calcestruzzo di malta e frammenti
di pietra e talora laterizi, ciò che i Romani
chiamavano opus caementicium). Il paramento di
valle era perfettamente verticale, e vi erano
realizzati due contrafforti per favorire la
resistenza del muraglione alla spinta
dell'acqua. Il paramento di monte era invece
inclinato (fig. 59a). Sulla spalla destra del
muraglione era realizzato, tagliandolo nella
roccia, un canale a pareti verticali, chiuso da
paratoie (delle quali si osservavano i gargami
nelle pareti), mediante il quale si regolava il
deflusso in condizioni ordinarie.
L'invaso di San Cusumano rimase in servizio per circa quattro secoli, finché l'interrimento ne determinò l'abbandono. All'epoca in cui il Prof. Agnello scriveva, all'interno dell'invaso prosperava un "rigoglioso agrumeto", e a valle una "feconda vigna". Cionondimeno il muraglione si presentava pressoché integro: "In nessun punto la muraglia presenta traccia di lesioni o di cedimenti, fatta eccezione di un profondo ingrottamento prodottosi nella cortina esterna, e della più volte ricordata breccia, tagliata probabilmente in tempi a noi vicini, per permettere lo sbocco delle acque utilizzate nell'irrigazione dell'agrumeto. Quando si pensi alla gravità delle piene torrenziali che calano dagli Iblei, si può valutare tutta l'efficienza statica della diga che si leva ancora salda come baluardo a sfidare la furia degli elementi".
Chi oggi si recasse sul sito ove la diga sorgeva non troverebbe più il rigoglioso agrumeto, né la feconda vigna e nemmeno la diga, il tutto devastato dall'impianto degli insediamenti industriali negli anni '60. Della diga sopravviveva ancora, nei primi anni 2000, un tratto di non più di 10 metri (fig. 59b, da CASSATARO 2002).
Fig. 60a: La diga di Grotticelli, Gela (CL), 1563 (per cortesia di
Google Street View).
H = 7,60 m, L = 120 m
La diga di
Grotticelli (o di Grotticelle, come anche è
chiamata la località per via di una necropoli
ipogeica, "a grotticelle", sita su un costone
roccioso non lontano dalla diga) fu realizzata
sul fiume Gela dapprima nel 1563, ma fu più
volte ricostruita, così che la struttura che
oggi si osserva, pur antica, risale a un'epoca
più recente.
Si tratta di uno sbarramento a gravità massiccia in muratura di pietrame e malta con rivestimento costituito da grossi blocchi di roccia calcarea squadrati a mano, lungo 120 metri. L'altezza del muraglione, in corrispondenza del punto più basso del coronamento, è di 7,6 metri al netto della platea di fondazione. Quest'ultima, formata anch'essa con blocchi di pietrame squadrati, oltre che al di sotto dello sbarramento si estende a valle di questo, complessivamente su una superficie di 50 x 42 m², con uno spessore variabile che cresce dall'estremità di valle verso monte fino a superare i 6÷7 metri. Il piano di coronamento è leggermente degradante verso il centro dello sbarramento. Qui è ricavato uno sfioratore sagomato ad arco alle due estremità, avente larghezza in sommità di circa 27,5 metri, e soglia soggiacente al coronamento di 3,6 metri. La larghezza dello sbarramento alla base (sommità della platea) è di 8,6 metri.
La costruzione della diga originaria, nel 1563, è attribuita all'architetto milanese Carlo Cadorna su mandato e finanziamento di Don Carlo Tagliavia d'Aragona, duca di Terranova (nome che all'epoca era dato alla città di Gela). Insieme con la diga furono realizzati i due canali di irrigazione, chiamati "saie", che da essa tutt'oggi si dipartono in destra e in sinistra, così che l'acqua del fiume, per successive diramazioni, poté azionare i mulini e irrigare gran parte dei terreni vallivi. A ristoro delle spese sostenute per la realizzazione delle opere, il Consiglio civico di Terranova accordò al duca in concessione i feudi di Manfria e Nobile, per complessivi 4500 ettari di terre coltivabili. Cionondimeno, l'uso successivo dell'opera fu a prevalente vantaggio delle terre e delle ricchezze del duca, che derivava anche cospicue rendite dal canone irriguo cui la Casa ducale condizionava la distribuzione dell'acqua agli altri proprietari della piana. E' pur vero, tuttavia, che anche dopo la costruzione della diga i duchi dovettero far fronte a ingenti spese per il suo mantenimento in esercizio. Dai documenti dell'epoca si ha notizia che lo sbarramento, forse inizialmente realizzato con tronchi d'albero o grossi pali di legno, già nel 1588 dovette essere ricostruito in seguito ai danni prodotti dalle piene invernali del fiume. Nel 1638 la diga fu nuovamente ricostruita su progetto del maestro Leonardo di Luca d'Aydone, questa volta verosimilmente in muratura, considerato che lo scritto di un contemporaneo parla di un argine "tutto di grosse pietre e molto magistrabilmente fatto" (DUFOUR et al. 1997) Un'ulteriore ricostruzione, che dovrebbe aver dato alla diga l'aspetto attuale, fu eseguita tra il 1770 e il 1785 su progetto forse dell'architetto del duca Andrea Gigante, forse dell'ingegnere milanese Felice Visconti. Poco dopo, nel 1795, si provvide al convogliamento delle acque del torrente Maroglio nel fiume Gela, incrementandone il deflusso. Un viaggiatore che visitò la diga nel 1793 riferisce di come il fiume di Terranova venisse arginato validamente da un muraglione solidissimo. "E' rivestito di belle pietre quadrate all'uso greco e romano, e fa un salto che forma una vasta tovaglia d'acqua. Per rompere la violenza vi si pone una scogliaia ben intesa, e per mezzo degli indici laterali porterà quel volume d'acqua che sarà necessaria pel progettato annaffiamento".
Benché si possa affermare che quest'opera di così grande impegno e utilità non abbia solo giovato alle rendite ducali ma abbia anche migliorato considerevolmente le potenzialità produttive del territorio, la gestione privatistica e talora dispotica dell'acqua derivata dalla diga fu un motivo di contenzioso che per secoli divise la famiglia ducale dalla comunità di Terranova. Nel 1920 la Casa ducale, vistasi riconoscere la proprietà delle acque in forza di due distinte sentenze, del Tribunale di Caltanissetta nel 1904 e della Corte Suprema di Palermo nel 1907, quintuplicò il canone di irrigazione dei vigneti, fissato in un regolamento del 1794. Nel 1925 tentò di imporre personale proprio anche per irrigare terreni altrui, generando un clima di aperta rivolta cui fece seguito, nel 1926, l'affidamento a un commissario prefettizio della gestione della diga di Grotticelli. Infine, nel 1936, la diga con relativi canali e pertinenze fu acquistata dal Consorzio di Bonifica della Piana del Gela.
Già prima della definitiva acquisizione dello sbarramento, il Consorzio (in origine Consorzio di irrigazione Diga Grotticelli) provvide ad eseguire dei lavori finalizzati all'incremento della capacità di invaso del bacino: su un muro di 2,6 metri d'altezza realizzato anteriormente (nel 1891) sopra la soglia di sfioro, fu installato un sistema di panconcelli che consentiva la completa occlusione dello sfioratore nei mesi primaverili, e dunque l'accumulo, per quanto possibile, delle acque di piena in previsione della stagione irrigua (fig. 60b).
Fig. 60b: La diga di Grotticelli, vista da valle, in una foto
degli anni '30 (dal sito
gelabeniculturali.it, per cortesia del Prof. Nuccio Mulè).
Con l'ultimazione, nel 1948, della già citata
diga in muratura a secco di
Gela, poi sostituita dall'attuale diga di
Disueri, la diga di Grotticelli perse gran
parte della sua importanza funzionale: le opere
realizzate per elevare la capacità del bacino, i
panconcelli ed il muro sottostante, furono
rimosse, e la soglia dello sfioratore fu
riportata alla quota originaria. Del muro
realizzato sulla soglia rimasero solo quattro
porzioni con funzione di sostegno della
passerella sovrastante. Fu inoltre realizzato
sotto lo sfioratore, in destra idraulica, uno
scarico di fondo-sghiaiatore.
Con un salto a valle di circa 4 metri, lo sbarramento conserva tutt'oggi la funzione di traversa di presa, oltre a quella, propria delle opere monumentali, di raccontare e testimoniare una storia di secoli.